La nostra ape da miele è a pieno titolo parte dell’ecosistema

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la Redazione
20 maggio 2023

Che sia allevata o selvatica, l’ape da miele vive libera e opera nell’ambiente, svolgendo il suo primordiale e insostituibile ruolo di impollinatore. Importante è quindi monitorare e preservare le colonie che vivono in natura

Il ruolo ecologico degli insetti impollinatori e in particolare delle api è universalmente riconosciuto come fondamentale per la conservazione degli equilibri naturali. Per l’ape da miele (Apis mellifera), e per le altre poche specie allevate dall’uomo (appartenenti ai generi Bombus e Osmia), viene inoltre riconosciuta la fondamentale importanza che questi insetti hanno nel garantire una buona parte (stimata a oltre un terzo) delle produzioni agricole. Tuttavia è riduttivo relegare l’ape da miele a essere funzionale solo alle attività umane come uno qualsiasi degli animali domestici, in quanto riveste un ruolo ecologico fondamentale anche negli ambienti naturali.

Apis mellifera: selvatica anche se allevata

L’ape da miele è stata oggetto, sin da epoche preistoriche, di predazione, ovvero di prelievo di miele, larve e cera da alveari rinvenuti in ambiente selvatico. Questa predazione avviene ancora oggi per tutte le specie asiatiche del genere Apis, ma anche per altre api sociali presenti nelle zone tropicali del nostro pianeta. Solo grazie alle caratteristiche bioetologiche di Apis mellifera, su questa specie è sorta, poco dopo l’avvento dell’agricoltura e cioè diverse migliaia di anni fa, quell’apicoltura che dopo un progresso discontinuo è giunta fino ai nostri giorni con tutte le sue innovazioni tecniche.

La lunga storia dell’allevamento delle api da miele da parte dell’uomo ha fatto sì che questa specie sia spesso erroneamente definita «ape domestica». La sua domesticazione è un tema che è antico quanto l’apicoltura, ma nella maggioranza dei casi chi se ne è direttamente occupato ha sempre dovuto ammettere che Apis mellifera, anche quando allevata, resta un animale selvatico. Sul fatto che l’ape da miele gestita dagli apicoltori non fosse divenuta un animale domestico si era espresso già Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nella sua Naturalis Historia. Diciannove secoli dopo è stato Charles Robert Darwin (1809-1882), nella sua opera intitolata, nell’edizione italiana, La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico, a giungere alla conclusione che sono proprio le peculiarità biologiche delle colonie di Apis mellifera ad aver impedito questo processo di domesticazione. L’uomo, infatti, pur allevando l’ape da miele per i propri fini produttivi, non può controllarne totalmente l’alimentazione e soprattutto la riproduzione, presupposti questi della domesticazione di una specie.

L’apicoltura è dunque la gestione di un animale selvatico; detto in altri termini, un sistema di produzione animale molto peculiare perché basato su un organismo che nei millenni l’uomo non è riuscito a modificare, cioè a domesticare.

La dura vita di un alverare selvatico

Una colonia di api che vive libera in una cavità naturale (per esempio in un tronco d’albero o nella fenditura di una roccia) si trova ad affrontare giorno dopo giorno, come tutti gli organismi che vivono in natura, la dura lotta per la sopravvivenza. Per risultare competitiva, questa specie ha affinato nel corso della sua evoluzione la capacità di sopravvivere come società, pertanto non può che perpetuarsi in gruppo, in colonia

I latini dicevano infatti una apis nulla apis, ovvero un’ape da sola non è un’ape, un concetto che oggi viene espresso con il termine di «superorganismo». Nel caso dell’ape da miele la selezione naturale non agisce sulla capacità della regina di fondare una nuova colonia, come avviene nei bombi (ma anche per vespe, calabroni e in moltissime specie di formiche), ma sulla capacità dell’intera colonia di sopravvivere durante periodi sfavorevoli: in gran parte dell’Europa i rigidi mesi invernali e, in aree più calde, gli aridi mesi estivi, durante i quali occorre che la colonia abbia accumulato ingenti scorte di cibo. Riuscire a sopravvivere ai periodi sfavorevoli, ma anche agli attacchi di predatori o malattie, non è certo facile, tanto che, secondo i dati scientifici oggi disponibili, in genere la metà delle colonie di api che vivono in natura, cioè al di fuori delle arnie degli apicoltori, ogni anno sono destinate a soccombere. In particolare le colonie di nuova formazione, quelle originatesi dagli sciami primaverili, hanno solo una probabilità su quattro (il 25%) di giungere vitali alla stagione successiva, mentre per le colonie già stabilite da almeno un anno le probabilità di farcela sono tre su quattro (il 75%).

Per le colonie gestite dagli apicoltori le cose sono molto diverse, tanto che perdite di alveari superiori al 10-15% sono considerate un risultato molto negativo. Gli apicoltori, infatti, si prendono cura delle loro api, le nutrono nei momenti difficili, le proteggono dai predatori, le curano dai parassiti e dalle malattie, anche se in questo modo permettono la sopravvivenza, e quindi la moltiplicazione, di patrimoni genetici meno vigorosi, anche se più produttivi; al contrario, le colonie selvatiche, sotto la pressione della selezione naturale che le falcidia pesantemente, vedono però premiate con la sopravvivenza solo quelle veramente più forti.

La quasi «scomparsa» delle colonie selvatiche

Per millenni le colonie di api da miele selvatiche e quelle gestite dagli apicoltori hanno convissuto ed essendo completamente identiche, sia da un punto di vista genetico che comportamentale, si sono sempre incrociate tra loro. Questo avviene perché le nuove regine si allontanano anche fino a 8 km dal proprio alveare per accoppiarsi con 8-25 fuchi (i maschi delle api) a loro volta potenzialmente giunti fino a 5 km di distanza dall’alveare di origine.

Inoltre molti degli sciami formatisi da colonie selvatiche venivano raccolti dagli apicoltori che li inserivano nelle loro arnie, come pure alcuni sciami formatisi nelle colonie gestite dall’uomo, prendevano la via della vita selvaggia. Questo continuo scambio genetico tra le api da miele selvatiche e quelle gestite dagli apicoltori avvantaggiava questi ultimi che potevano inconsciamente incamerare nelle api allevate i caratteri di rusticità e forza provenienti dalle api sottoposte alla selezione naturale. Tale continuo scambio genetico riduceva gli effetti negativi del supporto che gli apicoltori forniscono alle proprie api e che limitano la durezza della benefica selezione naturale.

Il distruttivo incontro con l’acaro varroa

Ma il proficuo scambio, tanto naturale quanto importante per gli apicoltori, si è bruscamente ridimensionato quando, tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, l’ape mellifera è entrata in contatto con un parassita che mai aveva conosciuto nel suo percorso evolutivo: l’acaro varroa (Varroa destructor). L’incontro, causato in prima istanza dal trasferimento in Asia di colonie di Apis mellifera (per sfruttare le ricche fioriture locali), si è dimostrato fatale, in quanto l’acaro varroa e l’ape mellifera non avevano avuto modo di sviluppare nei millenni quei reciproci adattamenti che permettono la convivenza tra un parassita e il suo ospite. Invece che ospite, l’ape da miele divenne quindi preda e vittima della varroa.

Gli apicoltori si accorsero subito che le loro colonie di api stavano morendo e non appena fu individuata la causa sono riusciti a proteggere le api allevate prima con sostanze di sintesi ad azione acaricida e poi mediante biotecniche abbinate all’uso di sostanze organiche. La varroa resta comunque ancora oggi uno dei problemi maggiori dell’apicoltura a livello mondiale, ovviamente assieme alla riduzione della flora, al diffuso uso di agrofarmaci e al cambiamento climatico.

Quello che in questi ultimi decenni era sfuggito agli apicoltori (e anche al mondo della ricerca) è che, mentre il numero di colonie gestite negli apiari, grazie al controllo umano del nuovo parassita, dopo una prima riduzione è ora in crescita, a essersi molto rarefatte, tanto da essere ritenute praticamente estinte, sono state le colonie di api da miele allo stato naturale. Oggi sappiamo inoltre che l’aver fatto sopravvivere «artificialmente» le colonie allevate mediante il controllo della varroa ha inconsapevolmente impedito l’emersione dei caratteri genetici delle poche colonie in grado di sopravvivere da sole all’azione parassitaria.

Bisogna però sottolineare che, se gli apicoltori non avessero agito in questo modo, l’economia mondiale (ancora basata in primo luogo sul buon esito dell’attività agricola) avrebbe con buona probabilità subito un tracollo fatale. La diffusione mondiale (a eccezione dell’Australia) della varroa ha dunque provocato una drammatica quanto rapida riduzione delle colonie selvatiche, tanto che in Europa si è giunti a considerare le sporadiche colonie di api da miele presenti in natura come fossero pecore sfuggite dal gregge o galline evase dal pollaio. Fortunatamente negli ultimi anni questa presenza viene piuttosto vista come una risorsa sia per gli equilibri naturali che per il futuro dell’apicoltura. Molte organizzazioni stanno inoltre attuando veri e propri programmi di rilascio in natura di sciami o di collocamento di nidi artificiali per api, come nel caso del progetto «Domus mellifera» della World Biodiversity Association.

L’importanza delle api selvatiche

Il grande valore delle colonie selvatiche di ape da miele è fondamentalmente ascrivibile a tre aspetti.

  • L’ape da miele è uno straordinario impollinatore; si pensi che una singola colonia può impollinare in un anno da 3 a 20 miliardi fiori, in un’area superiore a 30 km² e per molti mesi l’anno.
  • Solo dal confronto giorno per giorno con la selezione naturale possono emergere caratteri di resilienza, sia verso il grave problema della varroa che degli indubbi mutamenti climatici in corso.
  • L’imprescindibile ruolo che le colonie selvatiche hanno nella conservazione dei patrimoni genetici locali (sottospecie).

A questo riguardo, negli ultimi decenni, si sta purtroppo assistendo a un grave ma non irreversibile inquinamento genetico delle popolazioni locali di Apis mellifera. Questa specie nel suo vastissimo areale di origine (gran parte d’Europa, tutta l’Africa e il Medio Oriente) si è suddivisa nell’ultimo tratto di percorso evolutivo (tra 300.000 e 13.000 anni fa) in oltre 30 sottospecie, ognuna tipica di una determinata area geografica, ma tutte tra loro interfertili. Esempi di queste sottospecie sono l’Apis mellifera ligustica, endemica della nostra Penisola (ape italiana), e l’Apis mellifera siciliana, endemica della Sicilia (ape sicula). Negli ultimi decenni gli apicoltori hanno preferito alcune di queste sottospecie trasferendole dalla loro terra di origine verso altri luoghi, oppure hanno intrapreso programmi di incroci ripetuti tra sottospecie diverse per ottenere api più produttive. Tutto questo si è risolto nella quasi scomparsa di alcune popolazioni locali, fenomeno che oggi si tenta di arginare dal momento che sempre più nuove ricerche scientifiche dimostrano come siano le api locali (bene ambientate nel territorio) a garantire la massima produttività dell’apicoltura. Tutelare le api da miele significa dunque tutelare anche il loro originale e fondamentale assetto genetico, tutelare le popolazioni locali [1].

Un’app per rilevare le colonie in natura

Naturalisti ed ecologi stanno oggi riscoprendo l’estrema importanza della presenza di colonie di api da miele in natura e per questo ci si sta attivando per colmare la grave mancanza di dati al loro riguardo, dati che serviranno anche all’apicoltura oltre che alla salvaguardia della biodiversità.

Ci sono alcuni luoghi, anche in Italia, dove sembra che l’acaro varroa e l’ape abbiano trovato un nuovo equilibrio, luoghi che denotano in genere una caratteristica comune: l’esercizio di un’apicoltura tradizionale e quindi non interventista. L’isola di Pantelleria ne è un chiaro esempio, dato che in questo lembo di roccia vulcanica posto tra Sicilia e Tunisia vivono moltissime colonie selvatiche e gli apicoltori locali non sono costretti a trattare contro la varroa le famiglie da loro gestite. Per iniziare a studiare il fenomeno è stata creata dalla Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige una applicazione per cellulari per censire e monitorare nel tempo le colonie non gestite, ovvero selvatiche, di ape da miele. Per far ciò l’applicazione si avvale di una fitta rete di cittadini rilevatori che forniscono una adeguata massa di dati. A un anno dal lancio dell’app BeeWild (scaricabile gratuitamente da Play Store e App Store) sono già alcune centinaia le colonie censite, la maggior parte delle quali in ambienti urbani dove, nelle opere murarie, trovano molte cavità adatte alla loro nidificazione. Certamente individuare una colonia di api nel buco di un muro è più facile che vedere una colonia in una cavità di un albero nel mezzo di un bosco. Un altro dato che traspare da una prima analisi dei dati è che queste colonie tendono a creare delle aggregazioni, delle piccole costellazioni di alveari probabilmente interconnessi geneticamente. È questo quindi un campo sconfinato e nuovo per la ricerca e i prossimi anni riserveranno nuove e straordinarie scoperte su questo animale che tanto abbiamo vicino da considerare domestico, ma che resta e resterà sempre una componente della natura e dell’ecosistema.

Paolo Fontana
Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige


[1] Il problema dell’inquinamento genetico delle sottospecie e l’importanza delle colonie selvatiche di Apis mellifera erano stati evidenziati nel 2018 da un documento scritto in Italia dai maggiori studiosi di api: la «Carta di San Michele all’Adige». Sui principi del documento è poi nato il Comitato tecnico-scientifico tutela api autoctone (www.local-bees.it).

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